LEOPARDI E L’AMORE

di Gianni Giolo                                                                                    

Leopardi poeta dell’amore? Ne parla nelle poesie “Alla sua donna” e ne “Il pensiero dominante”, composto fra il 1831 e il 1835. Due liriche che si ricollegano all’amore sfortunato del poeta per Fanny Targioni Tozzetti e rientrano nel ciclo dei canti che portano il titolo di “Aspasia”. La negatività di questa esperienza non tanto rappresenta una sconfitta e una delusione personale quanto il fallimento dell’Idea stessa dell’amore che è così “dominante” da confondersi con la vita ed estinguersi solo con essa. L’amore quindi non come sentimento ma come realtà ontologica.  L’amore dura nonostante sia fonte di infelicità per l’uomo.  La radicale differenza fra la donna e l’Idea di essa si risolve in audaci antitesi, da una parte il “paradiso” e lo “stupendo incanto” e dall’altra le “sabbie” e il “vipereo morso”. Nel “Pensiero dominante”, poesia amorosa per eccellenza, non si parla mai di “amore” né di “cuore”, come nell’Infinito, in “A Silvia” e nelle “Ricordanze”. La parola che domina è invece “pensiero”. L’aggettivo che impera è “solo”, ripetuto dieci volte (con la variante di “solingo”). Troneggia “come torre” solo il pensiero. Non c’è nessuna figura, nessuna persona, nemmeno la donna amata che viene evocata alla fine della poesia, come un’ombra del pensiero: “che chiedo io mai, che spero / altro che gli occhi tuoi veder più vago? / altro più dolce aver che il tuo pensiero?”.  L’amore è solitario e assoluto.  La donna è una “idea”, una divina essenza. Non c’è nemmeno il ricordo, tema centrale delle “Ricordanze”. Non c’è nemmeno la “speranza” che aleggia sovrana nella canto dedicato a Silvia, altra persona ideale. Il poeta dice di aver tanto ragionato e parlato con lei d’amore, ma non ha mai rivolto la parola a Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi (la fanciulla che viene genericamente identificata con Silvia) che cantava e tesseva come una dea davanti alla sua casa.   Tutto ciò che esiste è l’assoluto  presente: con la profondità, la dolcezza, la terribilità, la forza che il presente può avere. Nel 1819, l’anno dell’Infinito, Giacomo ha provato il primo vero amore per la cugina   Gertrude Cassi e scriveva nello Zibaldone: “Io non ho mai sentito tanto di viver quanto amando. L’amore è la vita e il principio vivificante della natura”. Ma nel 1830 nella lettera “Agli amici suoi di Toscana” confessa di essere ridotto a un “tronco che sente e pena”, vive come un morto e nel “Dialogo di Tristano e un amico” esprime il suo grande desiderio di lasciare la vita. Poi la breve parentesi dell’amore per Fanny che gli fa sperare nella vita del pensiero amoroso: “E tu per certo, o mio pensier, tu solo / vitale ai giorni miei”. Compaiono parole audaci come “voglioso” e “bramoso”. Ma nella lirica c’è il “secco” e “aspro” senso dell’esistenza quotidiana: la non vita. Il mondo non è altro che “atto indegno”, chiacchera, viltà e “bassa voglia”. Esiste solo il pensiero amoroso “dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente”. L’aggettivo dolcissimo ritornerà nella Ginestra che consola il deserto del Vesuvio con il suo dolcissimo profumo. In questa terra domina la realtà. Ma cos’è questo pensiero? Non è realtà, ma illusione, inganno e appartiene al mondo dei “leggiadri errori”. In “Aspasia” compare la donna che ha fatto perdere la testa al poeta. La chiama “delizia” ed “erinni” (mia delizia e mio tormento), come la Violetta della Traviata “croce e delizia”.  Le Erinni erano, nella mitologia greca, le Furie vendicatrici e torturatrici che abitavano l’oscurità dell’Erebo. Fanny era moglie di un medico botanico fiorentino, madre di tre figlie, animatrice del salotto letterario in via Ghibellina, famosa per la sua bellezza e frequentazioni letterarie, donna leggera e di facili amori. Esperta in seduzione (“non punto inerme”) è la vera carnefice che fa innamorare l’ingenuo poeta e quando lui le rivela il suo amore, lo fa mettere alla porta dal maggiordomo. Leopardi scrive di aver “ululato” di dolore e di vergogna per ben due anni. La passione acquista una forza e una violenza che non abbiamo mai incontrato in Leopardi. Aspasia, cioè Fanny, non è la Beatrice di Dante o la Laura di Petrarca, ma una belva sadica che si fa gioco di lui ed il poeta esperimenta per la prima volta la crudeltà di Eros, il dio dell’amore, armato di arco e frecce. Il recanatese ha sempre cantato la donna ideale, “l’amorosa idea”, il “raggio divino”, il sogno della sua mente e del suo cuore ed ha trovato, un giorno del maggio del 1830 una belva efferata che l’ha divorato. La Fanny, da quel che racconta l’amico del poeta Antonio Ranieri, non si è resa conto della freccia conficcata nell’animo di Leopardi, non ha capito nulla di quella furibonda passione. Leopardi dice che le donne non si rendono conto del male che fanno, non hanno sensi profondi, hanno solo “il raggio delle pupille tremule” per ingannare gli uomini. Al poeta non resta che raccontare, con ferocia, masochismo, vendetta e menzogna la propria umiliazione.